24 Agosto 2019

Mujeres Vertical: Tamara de Lempicka

di Franco Moraldi
Le convenzioni, l’attenzione a “cosa penserà la gente”, il temere il giudizio dei benpensanti, la donna come sesso debole: tutti concetti privi di significato per la protagonista di questo incontro

Donna e personaggio assieme, icona inconfondibile, artista sempre in viaggio fra Parigi, New York e Beverly Hills, le sue opere sono la passione di Madonna, Barbara Streisand e Jack Nicholson, ha  due matrimoni alle spalle ma non nasconde, anzi rivendica la propria libertà sentimentale che non conosce tabù di genere (toh, ha pure un debole per la cocaina).

Davvero un tipo particolare: qualche tempo fa, ospite in Lombardia nella lussuosa villa di un noto personaggio italiano, è sfuggita – sagace ed irridente- alle sue avances, addirittura ingiuriandolo con l’epiteto di “nano!!”

Fermi, fermi tutti con facili associazioni con le cronache di questi tempi: siete fuori strada. La pittrice Tamara De Lempicka (è di lei che parliamo) non è più fra noi. Se lo fosse ancora avrebbe 121 anni, ma magari continuerebbe a comportarsi nella stessa maniera di oltre un secolo fa.

Ma poi, perché sforzarsi a costringere quest’ artista dentro una convenzione ovvia come il tempo? Non correrà certo il rischio di confondersi con altri pittori o con altre epoche, questa diva che ricordava la propria vita, fra verità ed immaginazione: a partire dall’infanzia ai primi del ‘900 nella Varsavia zarista (o forse a Mosca, chissà) sola con la mamma (ed il padre a volte suicida, a volte meno drammaticamente separato), fino al primo matrimonio con un avvocato arrestato dai bolscevichi e che Tamara riesce a far liberare e poi il divorzio ed il secondo matrimonio con un barone, ovviamente ricchissimo.

E poi c’è l’arte: arte che Tamara insegue già da bambina, viaggiando in Francia ed Italia e che poi raggiunge nella Parigi dei ruggenti anni 20 con la creazione di quei ritratti inconfondibili, con radici classiche ma già in odore di cubismo che diventano uno dei simboli più immediati dell’epoca che lei stessa visse da protagonista, sullo sfondo musicale del charleston ed a bordo della verde Bugatti, oramai trasfigurata in icona con abiti rigorosamente Coco Chanel.

Non cadiamo mai negli stereotipi, sulla sua vita personale come sulla sua pittura: in lei non c’è nessun appiattimento sul facile modernismo dell’Art Deco, come qualcuno frettolosamente pontifica; è sufficiente ammirare i ritratti borghesi (niente affatto indulgenti con i modelli effigiati) e poi le bambine (quasi cristallizzate in un’inquietante delicatezza), per poi restare spiazzati davanti agli imprevedibili soggetti religiosi: suore piangenti , frati e santi!

Manca, fra le sue opere, il ritratto di D’Annunzio e dire che tutto era stato programmato nel dettaglio, a partire dal calendario e luogo delle pose -ovviamente il Vittoriale- ove la fama della pittrice avrebbe potuto ulteriormente crescere con un modello così “immaginifico”. Ma nella oppressiva residenza lombarda del Vate (era questa la lussuosa villa citata all’inizio: che altro?) andò in scena un’esilarante commedia a metà fra le farsa di Feydeau e la commedia scollacciata degli anni 70, con il poeta nei panni dell’attempato seduttore e la pittrice in quelli della scaltra presunta vittima: fra ammiccamenti, avvicinamenti e ritirate, porte nottetempo aperte e richiuse accadde che il disegno del vate-seduttore fallì miseramente e Tamara, vera vincitrice del confronto, se ne scappò a Milano. Per quella volta almeno il copione classico della preda e del predatore non fu rispettato.

Anticonvenzionale, creatrice del proprio futuro, pari a pari nel confronto con l’uomo, fosse pure il potente di turno, innovatrice nello stile artistico: ripensandoci meglio, se oggi si trovasse a vivere quest’epoca nella migliore delle ipotesi si annoierebbe, superato l’orrore dell’assuefazione verso la volgarità ed il brutto dilaganti, in un’epoca in cui è tutto livellato in basso e viene chiamato moda.