28 Settembre 2016

Venezia, il Doge “velato” a Palazzo Ducale

di Stefano Torcellan
Un drappo nero con un epitaffio in latino, venne dipinto sopra all’immagine di Marino Faliero (o Marin Falier), doge di Venezia dal 1354 al 1355, colpevole di infamia e tradimento

Nella vasta sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale, a Venezia, sotto all’imponente soffitto dorato sono riprodotti, in sequenza cronologica, i ritratti di gran parte dei 120 dogi che si avvicendarono durante gli undici secoli di dominio della “Serenissima” sul Mediterraneo orientale ed in Italia.

Un drappo nero con un epitaffio in latino, venne dipinto sopra all’immagine di Marino Faliero (o Marin Falier), doge di Venezia dal 1354 al 1355, colpevole di infamia e tradimento.

L’intenzione delle autorità di allora, era quella di oscurare l’onta di una vicenda clamorosa che, dopo 660 anni, non è stata ancora dimenticata, a dispetto degli intenti governativi.

Nato intorno al 1285, Marino Faliero, apparteneva ad un antico e ricco casato con vaste proprietà nel padovano e nel ferrarese. Due dogi al potere nel XI° e XII° secolo (uno dei quali morto in battaglia), davano ulteriore lustro al suo casato.

Il Bucintoro

Possedeva una personalità ed un carisma straordinari esercitati con impeto e vigore nella sua lunga carriera politica e militare. Schiaffeggiò il vescovo di Treviso, giunto in ritardo ad una cerimonia che egli stesso presiedeva come Podestà.

Nominato doge, arrivò a Venezia il 5 ottobre 1354, con il Bucintoro, una nave a remi di rappresentanza, tutta intarsiata e dorata. Ma a causa di una fitta foschia fu costretto ad approdare sul molo della Piazzetta di san Marco e passare, con tutto il corteo, tra le due alte colonne in cui normalmente avvenivano le esecuzioni. E questo era ritenuto un segnale assai funesto dalla superstizione popolare.

La storia, si sa, viene scritta dai vincitori, ed essa ci ricorda che il nuovo doge volle diventare “di Venetia assoluto signore”, approfittando si dice, di due circostanze che riteneva favorevoli.

Tra alcune casate della facoltosa borghesia, fulcro dell’impero commerciale e militare della Serenissima, serpeggiava un crescente malcontento, dovuto al divario di casta e dalla proibizione di poter accedere alle cariche governative più alte, rimaste privilegio esclusivo delle casate nobiliari più antiche.

Marino Faliero aveva molti amici tra questi nuovi ricchi. Pensò quindi di sfruttare questa insofferenza per realizzare le sue ambizioni assolutistiche.

La seconda circostanza sembra essere un’aspra rivalsa, in difesa dell’onore macchiato dall’infedeltà della sua affascinante moglie, la nobildonna Aluica Gradenigo, che le malelingue dipingevano come “leggera e licenziosa”, ma erano maldicenze prive di fondamento. La dogaressa aveva allora 45 anni, ma in confronto ai 70 anni e forse più del marito, appariva molto più giovane della sua età. La aiutava il suo bell’aspetto ed il suo portamento aggraziato.

Successe che, sei ragazzi appartenenti alla vecchia aristocrazia, imbrattassero la sala del Consiglio con disegni e scritte oscene, “turpi e disoneste”, prendendo di mira proprio Aluica. Di quell’evento si è tramandato un distico, grafito su una parete, che recita così: “Marin Falier da la bela muger (moglie), altri la galde (gode) lu la mantien”.

Che Marin Falier volesse “comandar a bacheta”, come si usa dire ancora oggi dei personaggi dispotici o che volesse vendicarsi per le infami calunnie (o … per entrambe) forse non lo sapremo mai! Sta di fatto che l’energico doge organizzò una sommossa armata per il 15 aprile 1355.

Eugène Delacroix, 1825 - Esecuzione del doge Marin Faliero


I
l piano della congiura, però, trapelò e tutti i cospiratori vennero arrestati, imprigionati, deportati, uccisi. Undici di loro, i più “autorevoli”, furono impiccati in bella mostra lungo gli archi del Palazzo Ducale.

Il doge stesso, dopo essere stato spogliato delle insegne principesche e di tutti i suoi possedimenti, fu decapitato e la testa posta tra le gambe in segno di spregio. Il maestro d’armi poi si affacciò su piazza san Marco, gremita di cittadini increduli, mostrando loro la spada insanguinata, gridando: “Vardè (guardate) tutti l’è stata fatta giustizia del traditor”.

Alla pesante campana di san Marco, che suonò a morto durante l’esecuzione, fu tolto il batacchio, perché un evento del genere non doveva ripresentarsi mai più.

Un mistero: gli atti del processo sparirono per sempre! Il registro V dei Misti del Consiglio dei X (di carte 33), che avrebbe dovuto conservare la sentenza di condanna per Marin Falier, espone un “NON SCRIBATUR”.

Sorse così un’altra interpretazione della vicenda! Cioè che il Faliero non fosse un traditore bensì un vero patriota che mal sopportava l’inefficienza e la rassegnazione della vecchia aristocrazia dopo la sconfitta di Portolongo (1354) contro Genova, con la quale si accettava di venire a patti umilianti.

La resa produsse un ristagno economico e finanziario che gravava miseramente sulla popolazione veneta, suscitando rabbia e malcontento. Condizioni che Faliero probabilmente pensava di rimuovere, passando all’azione abbattendo la stantia oligarchia nobiliare, più concentrata a salvare i propri interessi piuttosto che riorganizzarsi contro Genova.

L’ambivalenza interpretativa di questo personaggio, forse ingiustamente screditato, appare, da una lato, in una rivalutazione eroica celebrata da artisti e poeti (Lord Byron), dall’altro, nei rimproveri contenuti nelle tragedie musicali, come quella di Donizetti che “dilaniò con dolci melodie la sua fama(Da Mosto).

La Serenissima certamente volle che di lui non rimanesse traccia nell’iconografia celebrativa, per questo il suo ritratto ufficiale a Palazzo, fu verniciato di nero con forma di drappo, per tramandarne l’infame tradimento e cancellare quell’onta dalla storia.

Palazzo Ducale, particolare del soffitto


Dietro a quella lugubre patina resistente ai secoli, lassù al confine con il soffitto d’oro, i veneziani ancora immaginano la forza vitale di quel vecchio doge intenta a strappare quel marchio di infamia che lo comprime nell’ignominia, per svelare finalmente la verità ai propri concittadini che ancora non l’hanno scordato.

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