Rudimentali o raffinate, alte o basse, chiuse o aperte, da uomo o da donna, le scarpe ci portano in giro e rappresentano lo stile delle diverse epoche. A partire dal Duecento, quando a Venezia erano già attive molte botteghe e i calegheri avevano già un loro Capitolare nel 1260. Potevano fare le scarpe, a differenza dei loro confratelli zavateri che potevano solo ripararle e riciclarle, per chi non poteva permettersi calzature nuove e raffinate. E come tante erano le botteghe, diversi erano i mestieri che contribuivano a questa produzione, i becheri ovvero i macellai che procuravano anche cuoio e pelle, gli scorzeri che producevano suole e i conciacurame per le tomaie, i patitari che fabbricavano i tipici zoccoli.
Gli zoccoli erano parte del costume veneziano alle origini, con una tavoletta di legno sorretta da due traverse sempre in legno, e una banda di pelle o tessuto dove infilarci il piede. Potevano essere semplici e poveri ma anche eleganti, impreziositi da intarsi in osso o madreperla, e hanno avuto una loro evoluzione stilistica mentre anche altri modelli di calzature acquistavano popolarità. Le famigerate poulaine, scarpine affusolate con una punta lunga fino al limite del ridicolo, calpestarono anche le calli di Venezia per un paio di secoli, fino alla loro decadenza alla fine del Quattrocento, ma nello stesso secolo la bizzarria più tipica veneziana in materia di scarpe è stata sicuramente quella delle pianelle, o chopine, con una zeppa che poteva essere alta fino a qualche decina di centimetri su cui svettavano gran dame e cortigiane che percorrevano le calli con grande vanto, rovinando talvolta al suolo - un bel paio di pianelle giacciono abbandonate in angolo del quadro Le due dame di Carpaccio.
Dal Cinquecento le scarpe variano sempre più nella forma, diventano più eleganti e ricche, decorano il piede con pellami dipinti e intarsiati e sete e broccati e gemme e fibbie, sia per le donne che per gli uomini. Nasce il tacco, molto usato anche oltralpe in ambito nobile e reale, che verrà poi abbandonato alla fine del Settecento con la Rivoluzione francese e il ritorno del calcagno a terra. La bravura dei calegheri stava anche nel saper soddisfare le richieste della moda e nella loro creatività sempre capace di intercettare il gusto internazionale, con babbucce in raso e scarpette con ricami preziosi e fibbie pregiate, scapini da lacchè dal “sottil taccone e calcagnino di cuoio”, stivali per cacciatori e militari o per i corrieri della Repubblica. Le calzature d'epoca si trovano al Museo Correr, alcuni antichi esemplari, e soprattutto nelle affascinanti collezioni di Palazzo Mocenigo, Centro Studi di Storia del Tessuto, del Costume e del Profumo.
Come altre arti anche calegheri e zavateri avevano le loro regole e mariegole, per l'accesso al mestiere, la qualità delle merci, la conduzione delle botteghe, ognuna con la propria insegna. La loro sede stava a San Tomà, nel delizioso edificio che ancora oggi mostra sulla facciata la riproduzione in pietra di calzature, come se ne trovano ancora in diversi angoli della città, a segnare le antiche botteghe. Particolarmente fitte nella zona di San Samuele, unici forestieri ammessi a Venezia gli artigiani tedeschi, che avevano a Santo Stefano una loro sede e popolavano la calle delle Botteghe, non lontano da un fondaco per il commercio delle pelli. Gli zavateri si trovavano soprattutto nelle zone più popolari, a Santa croce, Cannaregio, Castello, i calegheri preferivano San Marco e Rialto. All’inizio del Settecento a Venezia si contavano 350 capomastri, 680 lavoranti e 80 garzoni, nel 1773 un censimento contò 1172 iscritti e 340 botteghe. Il santo protettore era Amiano, miracolato e convertito da San Marco in Alessandria d'Egitto, che era appunto calzolaio.
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