20 Ottobre 2017

A Casa di Freud

di Stefano Torcellan
Viaggio immaginario nello studio dello psicanalista viennese

Dopo la scoperta dell’America, ci furono tre straordinari eventi che modificarono per sempre la storia dell’umanità: la rivoluzione cosmologica di Copernico, che scacciò la Terra nelle periferie spaziali; quella biologica che mortificò ancora l’uomo, ponendolo in derivata simbiosi con le scimmie antropomorfe.

Infine la rivoluzione freudiana, che strappò l’anima (ψυχή-psichí) al cielo per ricondurla nell’ introspezione individuale. Nacque, in questa occasione, l’inconscio, un universo nuovo, sconosciuto e misterioso, fonte recondita del condizionamento mentale e vivida linfa dei comportamenti umani indotti.

Esattamente ottanta anni fa, ero un giovane studente di psicanalisi e nell’ottobre del 1937, mi trovavo a Vienna, in visita al prof. Sigmund Freud. Fu un giorno memorabile ed intenso che volli fissare nelle pagine ora fragili ed ingiallite del mio diario, che sto sfogliando, dopo così tanto tempo e che in parte riproporrò.

“Giovedì 12 ottobre 1937.

Chiesi al postiglione di lasciarmi sulla Währinger Strasse, all’incrocio con la Berggasse. Avevo voglia di sgranchirmi le gambe dopo un lungo viaggio in treno e di smaltire la tensione che si andava accumulando sulla bocca dello stomaco per l’emozione dell’incontro. La carrozza, trainata da due cavalli, si allontanò veloce, cadenzata dal secco scalpitio degli zoccoli sull’acciottolato sdrucciolevole. Il cupo cielo mattutino sovrastava un’atmosfera cittadina ovattata. Le dense nubi grigie trattenevano quasi tutta la luce del flebile sole autunnale. Una fredda acquerugiola si era depositata sul mio cappotto e sul mio cappello, lucidandoli. La Berggasse era quasi deserta. Non c’erano auto o carrozze parcheggiate ai lati della strada. Le rare persone che incontravo o che vedevo procedevano silenziose, compite ed impassibili nei propri abiti scuri. Se non mi fossi sentito il viso punzecchiato dalla pioggia sottile e ghiacciata, avrei pensato di trovarmi in un sogno.

Il civico n. 19 lo raggiunsi presto! “Prof. Dr. Freud”, c’era scritto su una piccola placca di ceramica bianca. Entrai attraverso un portone imponente che richiamava l’appesantita architettura rinascimentale del palazzo, decorata con teste di leone e busti maschili. Mi trovai in un lungo androne, ombroso e rimbombante in cui risaltava, nel fondo, la luce sovraesposta di una porta vetrata, che immetteva nel cortile interno del palazzo.

Sigmund e Martha, sua moglie, si stabilirono nel mezzanino del palazzo nel 1891 con i loro tre figli: Mathilde, Martin e Oliver. Due anni dopo, Minna, sorella di Martha, si aggiungerà alla famiglia Freud in seguito alla morte del fidanzato. Nasceranno successivamente Ernst e le adorate figlie, Sophie ed Anna, la vera erede del magistero del padre.

Venne ad aprirmi una vecchia governante, non ricordo molto della sua fisionomia ma mi rimase impressa la sua cordialità e l’eccessiva deferenza; era evidentemente avvezza a ricevere persone, soprattutto gli “strani” pazienti del professor Freud … e chissà come mi considerò nel vedermi così impacciato e bagnato dalla pioggia! Paula, così si chiamava, mi fece accomodare nella sala d’attesa. Aspettai impaziente, in piedi, curiosando qua e là tra le numerose onorificenze assegnate al “prof. Sigismund (Sigmund) Schlomo Freud”, classe 1857. «Aveva ora 81 anni», pensai tra me, ed era divenuto uno dei medici più famosi del mondo. Nella stanza percepivo un lieve odore acre che non riuscivo ad identificare, forse perché si stemperava in una gradevole fragranza di cera per pavimenti e odore di vecchio.

La casa era silenziosa. Avvertivo l’affanno del mio respiro e un lontano tramestio provenire da qualche vano dell’abitazione.

Finalmente Paula mi fece entrare! Attraversai emozionato la sala di consultazione, dove vidi il mitico divano sul quale centinaia di donne e uomini turbati o sconvolti da mostri psichici aprivano il loro animo al terapeuta, confessando le proprie debolezze, le proprie perversioni, le proprie angustie e paure. Lì, distesi, raccontavano i propri sogni, confidando nella corretta interpretazione del Maestro, affinché potesse individuare il trauma, origine della patologia, per estrarlo dal profondo dell’animo, riconoscerlo e dissolverlo.

Freud applicava il metodo delle “libere associazioni”, quando invitava i suoi pazienti ad esprimere, di getto, tutto ciò che veniva loro in mente. L’ipnosi veniva così sostituita definitivamente dalla neonata psicanalisi, attraverso la quale emergeva l’inconscio individuale ricco di significati, che dovevano essere ora svelati.

Quando Paula aprì la porta dello studio, dopo aver delicatamente bussato, sorpresi il professore seduto al suo tavolo di lavoro, mentre completava una frase in calce su un foglio completamente stilato con inchiostro nero. Era circondato da innumerevoli reperti archeologici che aveva acquistato nell’arco della sua vita.

Anche le vetrine, accostate alla sua vasta biblioteca contenevano manufatti antichissimi: statuette greche e romane, lucerne, vasi attici dipinti, vasi egiziani in alabastro e molto altro.

Freud sosteneva la forte analogia tra il mestiere di archeologo ed il suo lavoro. In entrambi i casi si doveva scavare per ricostruire e ricomporre il passato nascosto nella terra o nell’inconscio.

Rimasi sconcertato dalla decadenza che notai sulla sua persona. Le immagini che avevano fatto il giro del mondo lo ritraevano spesso fiero, giovanile e di bell’aspetto. La persona che avevo di fronte era un vecchio profeta, logorato dalla leucoplachia cancerosa al palato e alla mascella, che stava sopportando da 14 anni e per la quale era stato sottoposto a più di 30 operazioni. La sua sofferenza era visibile nel suo volto. E l’avvilimento che lo attanagliava riguardava anche l’umiliazione per l’antisemitismo straripante. Solo pochi anni prima, tutti i sui libri furono bruciati dalla Gestapo, in quanto autore ebreo, proveniente da famiglie ebree.

La stanza era fortemente impregnata da un acre e stantio odore di sigaro, che non mancava mai tra le sue mani. Quello stesso odore che non avevo riconosciuto nella sua sala d’attesa.

Il Maestro, prima si girò, da seduto, verso di me poi, con lentezza, mi venne incontro con un sorriso deformato dal suo male. Mi fece accomodare su un divano e lui si sedette di fronte a me. Non sapevo più cosa dire, il discorso che mi ero lungamente preparato si era dileguato dalla mia mente, tanta fu l’emozione che mi scosse. Era un evento straordinario quello che stavo vivendo. Era raro, che Freud concedesse di intrattenersi con qualcuno in questo particolare periodo della sua vita. E questo alimentava il mio nervosismo…”

… Quello che ci dicemmo per più di un’ora, dopo che ebbi superato il panico che mi bloccò, è scritto tutto qui, su questo diario ingiallito, che sto maneggiando con cura, … ma lo terrò per me!

Nel 1938 l’Austria fu annessa al Reich, e le deportazioni di chiunque avesse sangue semita si inasprì. A Freud e alla sua famiglia fu concesso, in via eccezionale di lasciare il Paese. Il professore era un uomo troppo famoso ed apprezzato. Il suo libro “L’interpretazione dei sogni, del 1899” era già da tempo divenuto una pietra miliare in campo psicanalitico. In suo soccorso si mossero gli Stati Uniti, politici e nobili. Ma, quattro delle sue cinque sorelle che rimasero a Vienna, furono uccise nei campi di concentramento.

Per poter partire per Londra, dove aveva trovato ospitalità in una bella casa a Maresfield Gardens, Freud doveva necessariamente dichiarare di essere stato trattato con tutto quel rispetto e considerazione che si doveva ad un famoso scienziato dalle Autorità tedesche e dalla Gestapo in particolare. Infatti, quando quest’ultima si presentò alla sua porta in armi e con il documento da sottoscrivere, Freud era combattuto se firmarlo, quindi aiutare i nazisti a discapito della propria integrità morale oppure rifiutarsi e patirne le tragiche conseguenze, assieme ai suoi familiari.

E qui ci fu il colpo di genio che capovolse il contesto mistificatorio, intrappolando i nemici nella loro stessa menzogna.

Freud chiese all’ufficiale in comando se poteva aggiungere una ulteriore frase di encomio. L’ufficiale ovviamente acconsentì.

Mi sento vivamente di raccomandare la Gestapo a chicchessia”, scrisse di suo pugno. Il sarcasmo era così corrompente da invalidare il documento stesso.

Sigmund Freud morì a Londra, il 23 settembre 1939.