Se vi trovate sull’A1 e passate da Firenze, datemi retta: prendete l’uscita di Impruneta e percorrete la strada verso la città: dopo qualche chilometro troverete sulla sinistra una tranquilla e verde oasi, il monumentale cimitero degli Allori ove, bene in vista, vi aspetta per un saluto - in una tomba creativamente “affollata” di lapidi e ricordi di parenti ed amori- una vera signora, una combattente feroce e una fiorentina di razza.
E’ la più grande giornalista italiana, Oriana Fallaci.
Non chiamatela però giornalista, si offenderebbe, pensando a rubriche di cucito o di ricette. Nemmeno scrittrice, mi raccomando, poiché ugualmente vi chiederebbe se l’avete presa per una mielosa produttrice di romanzi rosa: siete davanti alla prima donna inviata di guerra, perbacco! Chiamatela semplicemente “scrittore”, come ha disposto recitasse la sua lapide.
Ora riposati su questa collina, Oriana: ne hai sicuramente diritto, vista la tua vita, davvero completa e complessa, da vera mujer vertical.
Ha solo quattordici anni quando partecipa alla Resistenza: come staffetta partigiana trasporta in bicicletta messaggi ed armi, insospettabile bambinetta con le treccine (le stesse trecce che, sotto l’elmetto mimetico, ostenta durante i suoi reportage in Vietnam, al fronte per 12 volte in 7 anni di combattimenti). Poi la scuola, brillantissima al Classico, indecisa all’Università, all’inizio Medicina e poi Lettere, fino alla scelta, osteggiata in famiglia: lascia lo studio e prende la strada del giornalismo. Tuttofare fra cronaca nera e politica, impegnata giorno e notte – fino quasi all’anoressia - a recuperare notizie per il quotidiano “Il mattino dell’Italia Centrale”, se ne va sbattendo la porta quando le viene “commissionato” un articolo per nascondere un attacco politico verso un candidato in piena campagna elettorale.
Benedetto quello scatto di orgoglio e di rigore che la fa poi approdare ad Epoca e all’Europeo, diventando in breve tempo l’icona del giornalismo coraggioso e professionale (interviste preparate puntigliosamente con “minute” che ancor oggi impressionano per studio del soggetto e puntuale, impietosa traccia dello schema delle domande: lo capiscono a proprie spese Kissinger e lo Scià, Alberto Sordi e Khomeini ( di fronte al quale si strappa dalla testa lo chador impostole per l’intervista, uno “stupido cencio da Medio Evo” come rimarca di fronte allo ieratico ed incredulo ayatollah).
E poi i reportage dall’America ed i primi libri che diventano subito “casi” in tutto il mondo: ha appena 27 anni quando è Orson Welles a scriverle la prefazione per “I 7 peccati di Hollywood”, ne ha 32 quando scrive sulla condizione della donna, costantemente un passo dietro l’uomo, tanto da trovare un titolo provocatorio come “Il sesso inutile”.
E’ una donna libera, coraggiosa e combattente che non si piega a facili etichette: è una femminista? Per carità, non sopporta le femministe, cui rimprovera la mancanza di gratitudine per “avervi spianato la strada e di aver dimostrato che una donna può fare qualsiasi lavoro”. Una propugnatrice della lotta di classe? Nemmeno per idea: trova insopportabili nel ’68 “gli studenti borghesi che inneggiano al Che e poi vivono in case con l’aria condizionata e vestono camicie di seta” (quasi le stesse parole di Pasolini che agli stessi studenti, manifestanti a Roma negli stessi anni, urlava “a valle Giulia voi eravate i ricchi mentre i poliziotti erano i poveri”).
Mai doma, con un enorme ego ed una sorprendente dose di civetteria e vanità, talvolta insopportabile nei rapporti con gli altri, se diamo retta alle confidenze di chi le viveva vicino, è stata in ogni caso la testimone coraggiosa della seconda metà del ‘900, sempre in prima linea fossero guerre, rivoluzioni o scontri di piazza come nel 1968 in Messico quando, colpita da proiettili,fu creduta morta e solo all’obitorio “scoperta” viva e ricoverata in ospedale .
Personaggio libero e forte, ma vero e non artificiale e quindi degno di rispetto: è il motivo per cui appare pettegolo e quasi vigliacca violenza il ripercorrerne fragilità personali o amori difficili; si citerà solamente il caso di quando, terminata una storia con un uomo sposato, volle graziosamente impacchettare le numerose lettere d’amore ricevute e farle recapitare – affettuosamente- alla moglie del malcapitato.
Una primattrice non poteva certo lasciare la scena in sordina: ammalata di cancro combatte e quasi irride la malattia, chiamandola- appunto- per nome, ironizzando sulle pietose perifrasi e, una sigaretta dopo l’altra, alternando terapie a scrittura. Sono i mesi in cui crea un’ opera altissima, “Un cappello pieno di ciliegie”: la storia della famiglia e degli avi, una ricerca delle proprie radici che diventa monumentale confessione, scritta “ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfugge di mano con l’inesorabilità della sabbia che sta dentro la clessidra”. Si tratta di un bellissimo viaggio all’indietro, vera poesia e quasi pittura, a partire dalla descrizione delle colline toscane, “struggentemente armoniose”.
Oddio, questo giudizio è un po' sdolcinato: non diteglielo quando la salutate in quel cimitero di Firenze, non l’apprezzerebbe, feroce com’era Oriana contro le frasi delicate ed il politically correct, una che preferiva raffigurarsi piuttosto come “un soldataccio”, allorché -come riporta il titolo di queste righe- “apro la mia boccaccia e dico quello che mi pare”.