La bellezza di Roma non sta solo nel fatto di conservare e proporci un'indinità di monumenti storici e resti archeologici ma anche nelle atmosfere che alcuni luoghi ancora oggi ispirano.
Chi di noi non conosce almeno per sentito dire il ruolo di Mastro Titta? Uno dei personaggi tra i più macabri appartenuti alla storia di Roma, anzi, che ne hanno fatto la storia! Mastro Titta era il boia e, come ci fa notare Giuseppe Gioacchino Belli, non era più il nome vero di chi espletava quella funzione ma aveva assunto connotati archetipali.
La Roma Papalina aveva, per l'epoca, quasi l'abitutidine di 'segar capocce' citando Manfredi nel capolavoro di Gigi Magni "In nome del Papa Re" e chi era dedicato all'abbisogna assumeva questa denominazione e non era fra i più benvoluti della città.
Ecco che il Cralt attraverso i luoghi simbolo della città, parlerà di pene e condannati, di come avvenivano le esecuzioni e dell’effetto che queste avevano sul popolo. Le luci del tramonto renderanno ancora più suggestiva la nostra passeggiata.
Ecco perchè vi proponiamo un sonetto del Belli in romanesco ed italiano.
«Er ricordo
Er giorno che impiccòrno Gammardella
io m'èro propio allora accresimato.
Me pare mó, ch'er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio e 'na sciammèlla.
Mi' padre pijjò ppòi la carrettèlla,
ma pprima vòrze gòde l'impiccato:
e mme teneva in arto inarberato
discènno: «Va' la forca quant'è bbèlla!».
Tutt'a un tèmpo ar paziènte Mastro Titta
j'appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene
un schiaffone a la guancia de mandritta.
«Pijja», me disse, «e aricòrdete bbène
che sta fine medema sce stà scritta
pe mmill'antri che ssò mmèjjo de tene».»
«Il ricordo
Il giorno che impiccarono il Camardella
io mi ero appena cresimato.
Mi sembra adesso, che il padrino al mercato
mi comprò un “saltapicchio” e una ciambella.
Mio padre prese poi la carozzella,
ma prima volle “godersi” l'impiccato:
e mi teneva in alto sollevato,
dicendo: «Guarda la forca quant'è bella!».
Tutt'a un tratto, al “paziente”, Mastro Titta
appioppò un calcio in culo, e il papà a me
uno schiaffone sulla guancia con la destra.
«Tieni!», mi disse, «e ricordati bene
che questa stessa fine sta già scritta
per mille altri che sono meglio di te».»
(Giuseppe Gioacchino Belli sonetto n. 68, Er ricordo, datato 29 settembre 1830)
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