28 Dicembre 2018

Artemisia Gentileschi: una donna oltre i simboli

di Franco Moraldi
La personificazione in Artemisia del senso di dignità personale, caparbietà assoluta, interlocuzione non sottomessa ma a schiena dritta rimane ancor’ oggi  intatta

Perché, intanto, questo titolo? La risposta è facile: il nome di Artemisia Gentileschi evoca immediatamente la vicenda che la vide vittima due volte:  vittima prima fisicamente di una violenza sessuale e vittima poi, in maniera più psicologicamente sottile, nel successivo processo contro  lo stupratore, di cui c’è pervenuta, anche se a 400 anni di distanza,  amplissima memoria documentale.

Vorremmo sì ricordare quei fatti, ma non fermarci – appunto- alla prima immagine: sarà sufficiente seguire Artemisia dopo la fine di quel processo per scoprire almeno altre due  facce dell’artista, meno note e incredibilmente “moderne”.

Non si può comunque non partire da quella vicenda di cronaca nera che, all’alba del 1600, portò alla ribalta mediatica la diciottenne Artemisia; una figlia d’arte intanto : il padre Orazio affermato pittore nonché buon amico del Caravaggio e lei stessa già a percorrere la stessa strada con opere di natura religiosa e soggetti biblici. Lo faceva con notevole successo, se lo stesso Orazio orgogliosamente scrive che la giovane pittrice ha “per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. 

Accade che il padre, per ulteriormente accrescere le sue capacità artistiche, la affida ad un altro pittore, tal Agostino Tassi: sicuramente buon paesaggista  esperto nel rendere il senso della prospettiva, ma personaggio che a definirlo “poco di buono” si pecca per difetto. Soprannominato “smargiasso”, violento, a suo agio in ambienti torbidi, accusato anche di aver commissionato l’omicidio della moglie, approfitta della frequentazione di casa Gentileschi per violentare la giovane pittrice: a nulla serve la resistenza tentata da Artemisia che ricorderà quei momenti in una testimonianza giudiziaria che ancor oggi trasmette immutato il senso del dolore e della sopraffazione. 

Dopo un anno trascorso in mendaci promesse di matrimonio riparatore (tacendo ovviamente il proprio vincolo coniugale), il Tassi viene infine denunciato per violenza sessuale nei confronti della figlia da Orazio, dando il via ad un processo che, pur con i media dell’epoca, diventa di eclatante rilevanza pubblica rendendo di comune dominio il contenuto delle diverse udienze. Nulla è riservato o protetto ed alla giovane Artemisia niente è risparmiato: da testimonianze interessate di presunti suoi comportamenti depravati ad infamanti ispezioni corporali, arrivando addirittura a torture fisiche che, colpendola nelle mani (di una pittrice!) dovrebbero certificare la verità delle sue dichiarazioni.

Nulla però modifica la condotta della ragazza: rimane ferma sulle sue posizioni nonostante incalzanti interrogatori in aula o pruriginose ironie per strada e, complici anche ricostruzioni testimoniali avversarie smaccatamente false, si arriva alla condanna del Tassi (seppur più formale che sostanziale) ed alla costruzione dell’immagine simbolo di cui si scriveva prima. La personificazione in Artemisia del senso di dignità personale, caparbietà assoluta, interlocuzione non sottomessa ma a schiena dritta rimane ancor’ oggi  intatta.

Si diceva però che la vita per la nostra eroina continua anche dopo l’uscita dal tribunale ed allora seguiamola, nel lungo tempo che ebbe a vivere nei successivi 40 anni.

L’aria di Roma doveva sicuramente essere divenuta irrespirabile per la Nostra se solo qualche ora dopo la sentenza si sposa con un (mediocre) pittore fiorentino, Pietro Antonio Stiattesi, fratello dell’accusatore del Tassi in giudizio,  e lo segue a Firenze dove inizia un secondo tempo della propria vita che potremmo definire, citando il film con Melanie Griffith, di “Donna in carriera” . Pare infatti quasi incredibile la trasformazione dell’Artemisia che abbiamo conosciuto dalle carte processuali: anticipata da una lettera di “presentazione” (innanzi citata) del padre a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana (nota per l’amore per l’arte ed il mecenatismo) la Gentileschi si muove a suo agio fra nobiltà e ambienti artistici. Prima donna ad essere accolta nell’ Academia del Disegno, diventa amica di Michelangelo Buonarroti il giovane (ultimo discendente dello scultore) e di Galileo Galilei e porta avanti una ricca produzione di dipinti, essenzialmente di matrice biblica. Come non ricordare le varie versioni di “Giuditta ed Oloferne”, in cui l’eroina uccide - con ampio dispiego di spruzzi di sangue e sfoggi muscolari nelle braccia che lo bloccano sul letto- il malcapitato condottiero assiro. Quest’opera si presta, come altre mai,  a fornire una perfetta sintesi delle varie letture  psicologiche della vicenda personale dell’artista: dall’ evidente rappresentazione  della vendetta rispetto alla violenza subìta all’instaurarsi di un  rapporto di cooperazione/complicità tutta femminile fra Giuditta e la fantesca che la assiste nell’opera; valutazioni tutte verosimili: senz’altro meno “partecipe” appare la Giuditta caravaggesca che, intenta alla medesima attività, dimostra un distacco assai maggiore, quasi intriso di cristiana pietà. L’ “Artemisia” in carriera produrrà varie versioni di questo soggetto, in cui lo stesso impianto figurativo varia per colore degli abiti od ornamenti delle figure: una sorta di personalizzazione dell’opera che le permette – quasi in ottica industriale- di personalizzare le immagini a seconda del committente. 
Un nuovo volto quindi per la “pittora” (come veniva chiamata) sempre più autonoma e a suo agio in città e nazioni diverse: opererà a Genova, Venezia, addirittura a Londra, tornando anche a Roma prima di stabilirsi, pressoché definitivamente, a Napoli. Manager presumibilmente di una scuola di lavoranti mantiene la già conosciuta fierezza di relazione anche interagendo con vescovi, committenti e protettori artistici. Emergono da documenti e lettere dell’epoca fiere rivendicazioni sul valore delle proprie opere (“quando io domando un prezzo non fo usanza di chi domandano trenta e danno per quattro”), nonché un’ attenta gestione del proprio valore artistico, anticipando quasi una politica del diritto d’autore  (“ho fatto voto di non mandare più disegno de mio perché…per spendere di meno me lo fanno fare e da un altro pittore che lavora sulle fatiche mie, che se fusse homo ‘i non so come si passerebbe”). Forse rassegnata, ma sempre con il conosciuto orgoglio, Artemisia sintetizza poi mirabilmente: “il nome di donna fa stare in dubbio finché non si sia vista l’opera”.

Proprio dalle stesse documentazioni recuperate nel corso dei secoli, alcune anche recentissimamente , emerge un altro – ed ultimo- volto di Artemisia: quello sentimentalmente“ moderno”. È probabile che quel matrimonio con lo Stiattesi così a ridosso della sentenza sulla violenza (anche se ovviamente preparato con qualche anticipo) e seppur durato nel tempo con vari figli (molti - secondo quanto accadeva all’epoca - non sopravvissuti all’adolescenza) non consolidò al meglio i rapporti fra i 2 coniugi: proprio durante gli anni fiorentini appare una terza figura: il nobiluomo Francesco Maria Merighi, aristocratico possidente coetaneo di Artemisia. Fra i due scoppia l’amore ma, carte (di lettere autografe recuperate dagli archivi dei Frescobaldi, parenti del Merighi) alla mano, non dovette trattarsi proprio di un amore segreto. Se infatti ritroviamo l’oramai conosciuta Artemisia muoversi fra romantici “ mio carissimo core” in missive affettuose e più freddi “ Illustre signore Francescho” se il testo virava verso scene di gelosia o.. richiesta di denari, abbastanza imprevedibilmente fa la comparsa anche la penna del coniuge Stiattesi il quale corrisponde col Meringhi, ragguagliandolo sulle vicende familiari, provvedendo anch’esso a chiedere aiuti economici, non senza precisare la propria vergogna nell’ ”avvere le corna”!

Già, una vera e propria famiglia allargata diremmo e, pur in mancanza di certezze, il venir meno negli anni successivi di riferimenti al marito e l’evidenza di una presenza contemporanea del Meringhi e di Artemisia a Napoli spinge a ritenere che quella storia si possa essere poi conclusa con un matrimonio.

E’ dunque questa la storia - più ampia del solito -  dell’icona Artemisia;  se poi proprio vogliamo chiudere la sua pagina dobbiamo ancora far trascorrere il tempo. Non ci riferiamo a quello immediatamente dopo la morte (che la colse a Napoli sessantenne ed oramai riconosciuto riferimento artistico europeo): non fu sufficiente infatti la sua scomparsa a far tacere le invidie e le gelosie che ironizzarono sul gioco di parole sul nome su cui da giovane la pittrice indulgeva (“Arte mi sia gentil esca”), tramutato in un orrendo  “Gentil esca dei vermi”, quanto piuttosto alla ri-scoperta che nella prima parte del ‘900 avvenne della pittrice ad opera di due coniugi cui si devono due sintesi formidabili di Artemisia : Roberto Longhi, storico dell’arte, per cui Artemisia fu “l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore” e Anna Banti, scrittrice, che ancora in maniera più essenziale sentenziò come “una donna che dipinge nel 1610 è un atto di coraggio”.

 

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