13 Aprile 2016

Welfare, novità ma non solo

di Gianni Tortoriello
"Sicuramente le grandi aziende italiane per dedizione, cultura ed esperienza hanno già un passato solido col welfare verso i propri dipendenti. Ora la sfida sarà portare queste esperienze a un tessuto fatto di aziende più piccole"

Qui nel nostro Focus volevamo parlare di Welfare oggi in Italia, capire da dove veniamo e dove andiamo in questo frangente importantissimo per il nostro Paese nel momento in cui si cerca d’imboccare la porta di uscita dalla crisi economica che ci attanaglia da ben più di un lustro.

Abbiamo scelto un interlocutore di prestigio, ma soprattutto di grande preparazione ed esperienza.
Ne abbiamo discuso con Paolo Onelli, Segretario Generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Primariamente, una precisazione – ci ha detto Onelli – “siamo in attesa della pubblicazione imminente del decreto ministeriale in materia e dobbiamo dire che questa è una conversazione che avviene alla vigilia di un provvedimento ministeriale molto atteso e verso il quale si hanno grandi aspettative. Il governo ha, in questa fase, interpretato un bisogno reale del sistema produttivo italiano. Sicuramente le grandi aziende italiane per dedizione, cultura ed esperienza hanno già un passato solido col welfare verso i propri dipendenti. Ora la sfida sarà portare queste esperienze a un tessuto fatto di aziende più piccole quindi anche di maggiore distanza alle grandi aggregazioni tipiche delle grandi imprese”.

Come lei ha appena accennato siamo un paese in cui il welfare ha un grande radicamento e abbiamo passato una serie di stadi; questo secondo welfare – quello aziendale- sostituisce quello pubblico?

No, direi che questa è una lettura che non può essere accreditata per vari motivi; il welfare ha talmente tante componenti e talmente importanti (pensiamo alla sanità pubblica e al suo ruolo) che non possiamo pensate che la componente pubblica possa essere superata in favore di una svolta unidirezionale verso un welfare tutto privato. Si sta percorrendo la strada dell’integrazione, per la verità una strada indicata già da molti anni e, in vero, l’unica possibile. Ora non dobbiamo dimenticare, però, che abbiamo un welfare statale che va definendosi anche in ragione delle limitazioni delle politiche di spesa e del rapporto Deficit-Pil che condiziona la possibilità di espandere questa spesa, pur nella necessità di garantire molti presidi essenziali verso i quali nessuna forma privatistica riuscirebbe a garantire tutto quello che oggi è garantito ai cittadini italiani, e non solo. Integrazione significa portare le esperienze e le attività di servizio alla persona più vicino al luogo dove lavora, questo è il pregio del sistema del welfare aziendale che è un sistema integrativo (rispetto a quello pubblico), di prossimità al luogo, quindi anche un welfare che supera l’idea di sé che per qualche anno è stata assistenzialista, tendenzialmente un welfare che è espressione di un sistema economico che cresce e non è fermo.

Il welfare, quindi, deve significare mettere sempre la persona al centro di tutto?

Significa garantire più occupazione femminile, garantire la possibilità che i cittadini siano genitori e anche lavoratori e, quindi, questa dinamica sia generativa anche di crescita demografica. Significa anche maggiore attenzione ai temi della non auto sufficienza e ai temi delicatissimi della grande difficoltà nel connubio tra vita privata e vita lavorativa.

Quanto l’evoluzione delle tecnologie può venire incontro a miglioramenti anche nel welfare?

Le tecnologie stanno cambiando il rapporto tra le persone e il mondo ma anche quello tra le persone stesse. È evidente che anche il welfare ha la possibilità di trarre beneficio dalle nuove tecnologie. Pensiamo semplicemente a tutto quello che è il benessere delle persone legato alla conoscenza, all’informazione o la possibilità di operare senza essere necessariamente fisicamente in un posto determinato. Tutto questo è garantito dalle nuove tecnologie e non certamente da un incantesimo. Però il welfare ha una compente irrinunciabile che è quella ‘delle persone a favore delle persone’ che da al welfare un nuovo elemento di personalizzazione che consiste nel non essere meramente l’acquisto di un servizio ma la relazione tra chi offre il servizio e chi lo riceve. Questo è un valore aggiunto, non trascurabile, se pensiamo che il welfare non sia solamente al servizio di un insieme d’individui ma anche di comunità che vive in quanto tale.    

Qual è la nozione di welfare oggi?

C’è la possibilità che qualcuno, con un’interpretazione restrittiva, voglia chiudere la nozione di welfare verso una forma egoistica avanzata. Bisogna dire, invece, che oltre alle componenti retributive, ci sono anche delle compenti accessorie che si sostituiscono talvolta a quelle retributive ma alla fine non ragioniamo sempre nel perimetro risarcitorio; sarebbe interessante che proprio le speranze di welfare futuro facessero evolvere buona parte del nostro sistema economico coniugando l’idea che dal profit si possa produrre anche qualche effetto sul no profit, quello che prima veniva chiamato “social committed” cioè un impegno anche sociale delle realtà imprenditoriali. Questa è una strada ampiamente percorsa in altri sistemi economici sviluppati che vanno ad affiancare ad una componente irrinunciabile, quella del welfare pubblico, quella che vede proprio tutti -anche quelli che non avranno mai la possibilità d’inserirsi nel mercato del lavoro- e magari alle dipendenza di una azienda che già fa tante cose verso i propri dipendenti.

I frazionamenti, le lotte generazionali per l’occupazione, le dinamiche sociali figlie della crisi possono influire in che maniera nel creare un sistema di welfare più avanzato?

Dipende dalla nozione di welfare, io penso che se diamo un accezione pensionistica alla materia welfare e se andiamo sempre “a battere con la lingua dove il dente duole” affermando che per favorire il cambio nelle imprese occorre in qualche modo permettere alle persone di raggiungere la pensione, non c’è dubbio che ci addentriamo in discorsi appassionanti ma non si fanno molti passi avanti. Dobbiamo, però, focalizzare che questo non è tanto un tema di welfare ma di gestione del ciclo vitale di un azienda. Il confronto è sul piano della politica nazionale in cui siamo ancora in una fase di confronto e approfondimento; alcuni passi avanti si sono avuti nella legge di stabilità di quest’anno con l’idea del Part time che, in fase d’uscita, può sicuramente agevolare. Credo che anche qui ci misuriamo con una componente antropologica e culturale, cioè con la necessità di non immaginare una popolazione che si divida in popolazione attiva e una assistita ma in una popolazione che si mantiene a lungo attiva, anche se in forme diverse, che possa soprattutto nella seconda e terza parte della sua attività lavorativa beneficiarne per qualità e quantità impegni diversi. Non c’è dubbio che l’invecchiamento della popolazione al lavoro comporti un aumento dei rischi come quello infortunistico o quello delle performance ma la risposta a questo problema non potrebbe essere il classico “Va beh, allora mandiamoli in pensione”, dobbiamo farci venire qualche idea in più per garantire attività e anche una maggiore aderenza della vita lavorativa (soprattutto nella seconda parte) alle esigenze delle persone. Lo stesso discorso vale anche per i giovani.

Abbiamo parlato di welfare aziendale, chiaramente, non possiamo più pensare a un welfare aziendale sullo stile di Adriano Olivetti, non è più fattibile. L’intuizione che la valorizzazione delle risorse umane all’interno in un’azienda significa anche avere maggiore produttività resta attualissima. E’ una vera e propria frontiera nuova quella della “People Value“oggi tanto decantata?

No, io penso che sia un passaggio indispensabile in una economia di qualità che voglia avere qualche chance di concorre sul mercato globale. Noi dobbiamo mettere al lavoro una forza fatta di persone, che hanno sempre più spesso provenienze varie, che appartengono ad etnie diverse e che sono diverse; siamo dentro un cambiamento nella struttura sociale italiana e abbiamo bisogno d’imprese che facciano leva sul potenziale e sullo sviluppo dello stesso per essere in grado di dare il meglio nei processi e nei prodotti che offrono. Non è retorica, è un esigenza di chi fa impresa quella di avere il massimo dell’impegno e della produttività ma anche il massimo dell’espressione personale e di gruppo. Sentivo, qualche giorno fa, una intervista radiofonica ad un nostro connazionale che parlava del suo trasferimento negli Stati Uniti e del suo lavoro alla regia in uno degli ultimi film americani in uscita, credo ”Kung Fu Panda”. Chi intervista parlava di come questo sia un altro esempio di come i nostri talenti vanno all’estero (anche se andare a lavorare ad Hollywood per chi fa cinema non è certamente un esempio di emigrazione) ma non è tanto questo quello che mi ha colpito quanto la risposta alla domanda “cosa consente di fare un film di successo?” Ecco la risposta “Molto di più di quanto pensiamo noi in Italia, il prodotto è il risultato di uno sforzo collettivo”. Ecco, vedere come le strutture economiche di paesi che -di fatto -dimostrano con i numeri e con i prodotti che hanno più successo tramite storie che raccontano di gruppi di comunità che non di singoli col loro genio. Per me, il welfare dovrebbe sostenere questi gruppi più che il singolo individuo. Questi gruppi devono condividere il pensiero di imparare a fare un gioco di squadra.

Siamo all’ultima domanda, passiamo alla nostra realtà, il “CralT”. Sfatiamo il luogo comune secondo il quale il Cral sarebbe il posto dove si organizzano solo le gite fuori porta. I Cral possono essere elementi, e anche momenti fondamentali di democrazia e partecipazione, da mettere al passo con i tempi incastonandoli come strutture basilari in questo nuovo concetto di welfare. E’ possibile?

Io penso di si a patto che le basi di questa riprogrammazione siano su un piano di relazioni industriali e sindacali sani; il fatto di avere capacità di confronto, di trovare intese e di trovare negli accordi il punto di sintesi senza il quale anche questa storia finirà per non essere altro che un altro tentativo non riuscito di modernizzazione del paese. Questo significa che la condizione di valorizzazione di realtà come la vostra sta nel grado di partecipazione e di utilizzazione che i rappresentanti dei lavoratori e l’azienda saranno in grado di dare attraverso gli accordi (gli accordi poi sono lo strumento basilare di questo edificio). Questo significa far evolvere anche il sistema di relazioni che, probabilmente, già è evoluto. Io penso che il nostro sistema non sia più solamente orientato alla gestione di un conflitto ma alla gestione della necessità di tutti che hanno dovuto fare i conti con una crisi terribili e lavoratori con tempi stretti, necessità di lavoro e di crescere le proprie famiglie al contempo.

 

Il nostro sforzo, come CralT, è aderire completamente a questa idea di rilancio; siamo perfettamente sintonizzati sul concetto di gioco di squadra. Il CralT deve dare sempre il meglio ai soci, questo ha affermato Clotilde Fontana, Presidente del Consiglio di Amministrazione del CralT.

 

Paolo Onelli
Nato a Roma nel 1963, sposato, due figlie, Paolo Onelli è il Segretario Generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dal 2015.

Dal 2013 è stato il Direttore generale della Tutela delle condizioni di lavoro e delle Relazioni industriali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e ha svolto funzioni di coordinamento nell'attuazione della normativa in materia lavoristica e in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Conduce i tavoli di negoziato nelle controversie collettive di lavoro di rilevanza nazionale.

Presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è stato anche Responsabile dell'Organismo indipendente di valutazione della performance (OIV) nel 2010 e Capo dell'Ufficio legislativo nel 2006.

Nel corso della sua esperienza lavorativa istituzionale si è occupato sia di politiche del lavoro che di politiche sociali. In quest'ultimo ambito, nel 2007 ha ricoperto l'incarico di Capo del Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri e nel 2001 è stato Direttore generale per la famiglia, i minori e le politiche sociali del Dipartimento per gli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei ministri. Inoltre, è stato Vice Capo di Gabinetto del Ministro per la solidarietà sociale dal 1998 al 2001.

Dal 2003 al 2013 è stato anche Professore a contratto in "Programmazione e gestione delle politiche sociali e dei servizi sociali" presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza" e l'Università degli studi LUMSA.



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