15 Giugno 2019

Mujeres Verticales: Lina Furlan

di Franco Moraldi
Lina è “semplicemente” quella di chi si è trovata a indossare la prima toga di avvocato ( o avvocatessa?) penalista in Italia

Tranquilli, la mujer vertical di oggi non è una di quelle commentatrici di football che negli ultimi tempi hanno attivato l’altissima discussione sulla liceità per una donna di dissertare di calcio in tv: il mestiere di cui si parla è quello dell’avvocato e la storia che Lina ci racconta è “semplicemente” quella di chi si è trovata, l’altro ieri, a indossare la prima toga di avvocato ( o avvocatessa?) penalista in Italia.

Già, un altro ieri -che sul calendario significa 90 anni- che ha davvero sbriciolato secolari convenzioni sull’esclusività di certi mestieri, di sorrisetti di finta benevolenza, di sottocultura maschilista che oggi ci infastidisce come certi odori di cantine stantie.

Lina nasce a Venezia all’inizio del secolo scorso, ma studia e vive a Torino, quasi in contemporanea per tempi e luoghi con Rita Levi Montalcini di cui già parlammo e cui l’accomuna anche l’esperienza personale: sono fra le prime donne che non solo frequentano l’università e si laureano ma che, screanzate, decidono di abbracciare una professione tipicamente maschile.

Si tratta in questo caso di fare l’avvocatessa in un mondo che osserva divertito queste suffragette nelle aule di giustizia: se Lina è stata la prima penalista italiana, in precedenza vi era stata solo una (!) avvocatessa – civilista- ad iscriversi all’Ordine degli Avvocati, tal Lidia Poét. Le cronache raccontano che al primo processo in cui Lina difese (e fece assolvere) una imputata di infanticidio, Lidia pure fosse presente in aula e, dopo la lettura della sentenza, le due “colleghe” si abbracciassero commosse.

Il muro della segregazione professionale si era quindi sbrecciato per non richiudersi più; circa 60 anni di carriera per l’avvocatessa Furlan, trascorsi pressoché totalmente nella difesa di altre donne, il più delle volte persone povere e bisognose, tanto che presto si meritò la definizione di “avvocato dei deboli”( in anticipo di qualche anno su un altro principe del foro, il nostro contemporaneo “avvocato del popolo”).

Combattiva davanti ai giudici, spinta ad affrontare da pari a pari i colleghi maschi anche attraverso il ricorso a repertori quasi teatrali: chi la vedeva in tribunale (chissà quanto poi attendibilmente) parlava di dialettica a voce altissima, gesticolazioni e toni elevati. Lina evidentemente non riusciva a dimenticare (come ripeteva spesso) che prima di lei “nessun tribunale aveva visto una donna, se non come imputata”.

E poi 60 anni di carriera nella “sua” Torino, ove raggiunse quasi il secolo, vivendo pienamente la propria vita di donna che, andata molto più giovane in sposa del famoso Pitigrilli (scrittore oggi quasi dimenticato ma vera star fra le 2 guerre a suon di cinismo, letteratura erotica ed effervescente, duelli con D’Annunzio… e pure spia e delatore al soldo della polizia fascista) gli fu sempre accanto, durante il matrimonio e nella difesa della memoria nei decenni a seguire.

E se al marito si deve la frase che presta il titolo a queste righe, è la moglie che vogliamo salutare: questa rivoluzionaria borghese cui si deve l’attuale pari presenza fra uomini e donne nell’Avvocatura e nella Magistratura del nostro Paese.

Tutto ciò sarebbe stato certo più difficile se, in una mattina di chissà quale giorno del 1930, la 27enne Lina magari tremante non avesse aperto la porta di un’aula di tribunale e vi fosse entrata a cambiare la storia, mentre – ricordava- “stavo lì, penosamente avvolta nella toga, e mangiavo la paura”.